I am truly trying to wean myself off the subject of Expats. Because it seems like there is not much left to say, really. One day I will stop talking about it.
But not until I feel that it's still such an unresolved matter.
I follow a few Expat FB pages and I read with tender compassion the posts of 1st-time expats asking for help on how to figure everything out. I read admiration and a sense of sisterhood the many posts describing the struggle of moving kids to a new country-school-language, of figuring out how everything works in that place you just moved to, although you cannot even pronounce it right. I know exactly how it feels. Then there are those dealing with a sudden emergency at home, who have to organise an intercontinental trip with small kids in less than 24 hours. Those trying to smuggle their Christmas decorations in the container by labelling the boxes "art supplies" or "garden lights" if they are moving to the Middle East.
But then there is the sudden post by that narcissistic bitch that gives Expats a dubious reputation for writing things like:
"My son prefers the company of a kid who belongs to the royal Saudi family to the child of a Burmese general."
Why, for God's sake, why?
To whoever might not be familiar with Expat dynamics: those who make it sound the most glamorous, are also the ones that allow the producers of Prozac and Ritalin to make their best profit.
I wanted to comment "Get out or I'll kill you", as Freddy Mercury tells John Reid when he fears he's breaking up the band (I know Bohemian Rhapsody by heart and it'd better win that Oscar tonight).
You don't break up the Expat band by being a bitch about your perceived privilege. Get out.
This came just as I was pondering another unresolved Expat issue, namely the burning desire most expat wives have to go back to work as soon as they can, even though their husband is usually taking care of the family's finances quite well.
If the elements of novelty and challenge (supposedly the stuff happiness is made of) are more than satisfied by expatriate living, what is missing from the equation is often MEANING. Where is that bastard? Where to find it?
Is it in voluntary work? Kind of. In learning a new language? To a certain extent.
But then navigating my new obsession with clinical psychology, I ran into the answer I was looking for, from the work of Lev Vygotskij, who theorised the concept of ZONE OF PROXIMAL DEVELOPMENT.
Meaning lies on the border between being competent and pushing yourself enough so that you are developing yourself and moving forward.
The key is in the word COMPETENT, because expatriate living throws new challenges at you at such a rate, that you don't ever become competent at anything you do. It makes you hit the reset button so many times that you cannot really reach mastery in any project you might have pursued while on the go.
I wrote it in my book, although with a less clear idea of what it meant: I said I felt like a master of mediocrity, or like the Japanese saying goes:
TAGEI WA MUGEI, many skills, no skills.
We don't look for money in our strongly missed, abruptly interrupted career (although a certain financial independence surely feels refreshing), WE LOOK FOR MEANING THROUGH COMPETENCE.
That is exactly it.
(I have another post about going back to work brewing in my head, stand by, it's coming)
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Sto veramente cercando di smetterla con questi post sugli Expat, perché ormai cos'altro c'è da dire? Un giorno chiuderò definitivamente l'argomento. Ma non finché sento che è ancora così poco chiaro.
Seguo diverse pagine di FB per Expat e leggo con tenerezza i post delle Expat principianti, alla loro prima assegnazione internazionale, che si chiedono come risolvere perfino le questioni più semplici. Con ammirazione e un senso di sorellanza i post di quelle mamme che hanno a che fare con cambiamenti di paese-lingue-scuole per i loro piccoli e hanno mille dubbi, o che cercano di far funzionare la famiglia appena trasferita in un posto che non sanno nemmeno ancora pronunciare. So esattamente di cosa parlano. Poi ci sono quelle colpite da un'emergenza improvvisa a casa, che devono organizzare un rientro intercontinentale con bambini piccoli a carico in meno di 24 ore. E quelle che cercano di contrabbandare le decorazioni natalizie nel container scrivendo sulle scatole "arte" o "luci da giardino", se si stanno trasferendo nel Medio Oriente.
Ma poi ecco che appare un post scritto da qualche stronza narcisista che rovina la reputazione di noi expat scrivendo cose come:
"Mio figlio preferisce giocare col bambino imparentato con la famiglia reale saudita che col nipote del generale birmano".
Ma che cavolo, PERCHÈ??
Per chiunque non conosca bene le dinamiche Expat: quelli che si vantano di star vivendo l'esperienza più fantasmagorica della loro vita e se la tirano senza sosta, sono quelli che poi permettono ai produttori di Prozac e Ritalin di fare i loro migliori incassi.
Volevo risponderle: "Esci prima che ti ammazzi" come dice Freddy Mercury a John Reid quando questi mette in dubbio l'unità della band (si, so Bohemian Rhapsody a memoria e stasera deve vincere l'Oscar!). Non intacchi la reputazione della Expat band blaterando cose senza senso sui tuoi presunti privilegi. Esci. Goodbye.
Questo è successo mentre stavo ponderando un'altra questione Expat che resta irrisolta, cioè il desiderio bruciante che le mogli Expat hanno di tornare a lavorare appena possibile, anche se di solito il marito guadagna abbastanza bene per entrambi.
Gli elementi di novità e sfida (fondamentali, a quanto pare, per essere felici) nella vita expat abbondano, quello che manca dall'equazione è il SENSO, il significato. E dove cavolo si trova questo stronzo? Dove andare a cercarlo? Nel volontariato? In parte. Nell'imparare una nuova lingua? Fino a un certo punto.
Ma poi mentre navigavo la mia nuova ossessione per la psicologia clinica, mi sono imbattuta nella risposta che cercavo, è venuta da Lev Vygotskij che ha teorizzato la ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE.
Si trova un senso a quello che si fa, quando si sta sul confine tra l'essere competenti e lo spingerci oltre, allo scopo di poterci sviluppare e crescere.
La parola chiave è dunque COMPETENZA, perché la vita expat ti lancia addosso nuove sfide con frequenza così incalzante, da impedirti di diventare mai veramente competente. Ti fa schiacciare il bottone RESET così tante volte, che non arriverai mai a completare nessuno dei tuoi progetti. L'avevo scritto anche nel mio libro, anche se con un'idea meno chiara sul significato: che ero un'esperta di mediocrità, o come dicono i giapponesi TAGEI WA MUGEI: tanti talenti significa nessun talento.
Non è l'aspetto economico, la molla (anche se l'indipendenza economica non è certo da sottovalutare), CERCHIAMO NEL RITORNO AL LAVORO QUEL SENSO DI COMPETENZA CHE DIA FINALMENTE UN SIGNIFICATO AI NOSTRI SFORZI.
Esattamente questo.
(awesome watercolour by me, all rights reserved)